L’archeologia sperimentale, sviluppatasi tra gli anni Sessanta e Ottanta in America, ha stretto un solido legame tra archeologia e sperimentazione, consentendo la ricreazione di gestualità e manufatti antichi. Questo approccio innovativo offre nuove prospettive per comprendere la cultura e le società del passato.
A metà tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento in America, lo sviluppo dell’interesse antropologico per la cultura materiale creò un forte legame tra archeologia e sperimentazione con il fine di comprendere maggiormente la cultura e la società antica. L’archeologia sperimentale, e con essa la possibilità di ricreare la gestualità e i manufatti del passato, rappresenta per gli studi archeologici uno strumento aggiuntivo che permette di verificare le ipotesi e formulare nuove teorie grazie ad esperimenti replicabili che imitano i procedimenti del passato.
Un interessante esempio di applicazione è sicuramente il Bronze Age Combat Project, un progetto nato dalla collaborazione tra gli archeologi Raphael Hermann, Andrea Dolfini, Rachel J. Crellin, Quanyu Wang e Marion Uckelmann incentrato sullo studio dell’utilizzo di spade e scudi dell’età del Bronzo e delle tracce di usura lasciate dai combattimenti. La sperimentazione ha previsto la replica di spade dell’epoca sulla base di originali studiati precedentemente, l’utilizzo di esse in combattimento con l’ausilio di scudi (prima in un combattimento studiato e controllato e successivamente in un combattimento più naturale) e l’analisi dei segni di usura con conseguente creazione di un elenco di segni diagnostici visibili anche su esemplari originali. Questo processo ha messo in luce possibili tecniche di combattimento preistorico, argomento sul quale non sono presenti testimonianze antiche e originali.
L’archeologia sperimentale, però, oltre ad essere uno strumento utile per gli archeologi e gli studiosi, è anche un valido strumento in relazione a problemi più attuali. John M. Christensen nel 2013 selezionò due antiche case norrene ricostruite all’interno di musei e ne monitorò le condizioni per 15 settimane mentre al loro interno vivevano dalle tre alle cinque persone. Secondo le direttive dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS) riguardo la qualità dell’aria all’interno di spazi chiusi, la concentrazione di diossido di azoto all’ora superava la soglia massima consentita, così come l’esposizione al monossido di carbonio stando all’interno delle case nel corso della sperimentazione superava il limite massimo; nonostante ciò, le possibilità di intossicazione da monossido di carbonio erano basse. Questo esperimento venne svolto per studiare le condizioni all’interno di case dell’Asia o dell’Africa sub-sahariana caratterizzate, come nel caso delle ricostruzioni delle case norrene, da un focolare o una stufa nella stanza principale.
L’archeologia sperimentale è una disciplina nuova e ancora in divenire, ma grazie al suo essere innovativa sarà senz’altro in grado di apportare nuovi e importanti dati agli studi tradizionali.
Sara De Gennaro, Lumi Online Journal