Olimpiadi 1936, Berlino, regime di Hitler. La straordinaria vittoria di Jesse Owens, un simbolo di sfida al nazismo e alla discriminazione razziale.
Il fondatore delle Olimpiadi moderne, Pierre De Coubertin, ha sempre sperato che lo sport potesse superare l’odio e i conflitti. Raramente, nella storia dal XIX secolo a oggi, i Giochi Olimpici hanno subito annullamenti o slittamenti temporali. Tra questi, ricordiamo Tokyo 2020, spostato all’anno successivo a causa della pandemia COVID-19, e le Olimpiadi del 1916, 1940 e 1944 a causa delle due guerre mondiali.
Nel 1936, l’organizzazione delle Olimpiadi fu affidata alla Germania, dove già emergeva un sempre più influente cancelliere: Adolf Hitler. In questa edizione, la forte propaganda cercò di collegare la razza ariana all’antica Grecia, e furono smantellati i mezzi di discriminazione antiebrei a Berlino. Vennero anche rastrellati abitanti rom, e furono emesse leggi speciali per i turisti omosessuali, che non vennero perseguitati come i residenti a causa delle leggi locali.
Hitler definì Jesse Owens un discendente dei primati, cercando di giustificare le sue vittorie e influenzare la comunità sportiva affinché escludesse le persone di colore dalle competizioni. Tuttavia, ciò non accadde, e Jesse Owens passò alla storia per aver umiliato Hitler e il nazismo.
Owens, un ragazzo afroamericano del contingente di atleti USA, vinse a Berlino e divenne un simbolo storico internazionale. Tuttavia, durante la sua vita rimase vittima della segregazione razziale negli Stati Uniti. Il Presidente dell’epoca, Franklin Delano Roosevelt, non gli permise di accedere alla Casa Bianca in riconoscimento dei suoi successi sportivi, e Owens si trovò costretto a svolgere lavori comuni e sfide umilianti, anche contro animali, per testare il suo atletismo.
Anche se Owens stesso non comprese appieno il simbolo che rappresentava per gran parte della sua vita, oggi lo ricordiamo come un uomo che si trovò a combattere il peggio dell’umanità e vinse da solo, in uno sport dove vince il migliore, senza distinzioni. Solo nel 1968, con l’iconica foto del podio e i pugni alzati di Tommie Smith e John Carlos, possiamo trovare la sublimazione dello sport come veicolo di uguaglianza.
Nicolò Loreti, Lumi Online Journal